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Il saṃnyāsa (devanāgarī: संन्यास; anche sannyāsa) è l'ultimo dei quattro ashrama dell'induismo.
Nella tradizione induista, è il culmine e lo stadio finale della vita, in cui occorre rinunciare ai beni materiali e dedicarsi interamente al proprio cammino spirituale:
«Dopo aver trascorso il terzo quarto della propria vita nella selva, durante il quarto egli abbandonerà gli attaccamenti e diverrà un asceta errante»[1].
Quindi come "asceta errante" (yati) privo di qualsiasi possesso, di casa o di focolare, vivrà solo di elemosine.
L'ultimo rito che compirà prima di divenire uno yati sarà il "sacrificio di Prajāpati" donando ogni sua proprietà ai poveri e ai brahmani, quindi interiorizzando quel fuoco sacrificale che lo aveva accompagnato nei riti religiosi per tutta la vita. Concentrato solo sul mokṣa, con barba e capelli rasati, le unghie tagliate, con solo una ciotola, un bastone e un vaso per l'acqua e senza mai nuocere ad alcun essere vivente[2], «Egli non aspirerà alla morte né aspirerà alla vita. Semplicemente attenderà il proprio tempo, come un servitore attende la ricompensa»[3].
Stefano Piano[4] evidenzia tuttavia che se il saṃnyāsa era originariamente lo stadio finale della vita, a partire da Śaṅkara (VII-VIII secolo) si avviò il costume da parte di alcuni devoti hindū di abbracciare quest'ultimo stato subito dopo il brahmācarya.