Al giorno d'oggi, Licenza di software libero è un argomento sulla bocca di tutti. Dalla sua nascita ad oggi, Licenza di software libero è stato oggetto di dibattiti, controversie e analisi in diverse aree. Il suo impatto sulla società, sulla politica, sull’economia e sulla cultura è innegabile e la sua rilevanza cresce solo con il passare del tempo. In questo articolo esploreremo i vari aspetti legati a Licenza di software libero, dalle sue origini fino alle implicazioni che ha nella vita di tutti i giorni. Attraverso un’analisi approfondita e obiettiva cercheremo di far luce su questo fenomeno e comprenderne la vera portata.
Una licenza di software libero è una licenza libera, un testo legale caratterizzato da un aspetto contrattuale o para-contrattuale, che si applica ad un software per garantirne la libertà d'utilizzo, di studio, di modifica e di condivisione, ovvero per renderlo software libero.[1][2]
La nascita del concetto di licenza applicata ad un software per renderlo libero combacia in parte con la nascita di GNU, il primo sistema operativo completamente libero ideato da Richard Stallman nel 1983.[3] Tutt'oggi il progetto GNU e la Free Software Foundation patrocinano attivamente il software distribuito sotto licenze libere e, in generale, la libertà digitale degli utenti.[4][5]
La GNU General Public License, la licenza Apache e la licenza MIT sono alcune fra le licenze libere più adottate.[2][6][7][8][9]
L’idea di licenza libera si sviluppa con la nascita del software libero la cui storia inizia a partire dal 1980.
Tra gli avvenimenti principali che portano allo sviluppo di queste tematiche troviamo:
Nella storia del software è importante focalizzarsi su alcuni diritti, soprattutto parlando dei software degli anni ‘80. Nel 1980 erano importanti 3 facoltà:
● Diritto di riprodurre (Art. 64-bis lett. a[10] ed art. 13[11] LdA), cioè il diritto di moltiplicare in copie il programma
● Diritto di modificare (Art. 64-bis lett. b[10] ed art. 18[12] LdA), cioè autorizzare le modifiche del programma
● Diritto di distribuire (Art. 64-bis lett. C[10] ed art 17[13] LdA), che negli anni ‘80 era la circolazione di copie fisiche
In quegli anni si discuteva su come proteggere il software, se con i diritti d’autore o con i brevetti. La scelta cadde sul diritto d’autore soprattutto perché la lobby delle aziende trovava conveniente adottare il diritto d’autore in quanto meno costoso, mentre il brevetto deve essere concesso (c’è bisogno di una domanda di brevetto che deve essere valutata da professionisti esperti) e ciò necessita di cifre molto importanti. Il valore economico era inizialmente nell’hardware piuttosto che nel software, solo in seguito si inizia a percepire che c’è del valore anche nel software (con l’avvento di linguaggi di programmazione come C).
A partire dal 1980 si diffondono quindi sostanziali cambiamenti, primo tra i quali la diffusione del software privato con forti limitazioni riguardanti la riproduzione, la distribuzione e la modificale libera del codice sorgente. Nel 1981 a seguito della sentenza Diamond v. Diehr, 450 US 175 (1981) venne riconosciuta per la prima volta la natura brevettuale dei programmi per elaboratore. In seguito a questi avvenimenti cominciò ad essere sempre più utilizzato e diffuso il concetto di proprietà intellettuale, concetto che in principio generò non poche difficoltà in quanto era sempre stato associato all’aspetto materiale di un prodotto. Infatti fino agli anni 90 questa espressione non era molto usata, ma diventa una moda quando viene rinominata l’organizzazione mondiale che si occupa di queste materie, chiamata WIPO. Il primo difetto di questa espressione è che mette insieme diritti molto diversi tra di loro, il che risulta molto confusionario. Il secondo difetto è che si usa l’espressione “proprietà” che nel sentir comune ricorda un diritto che applichiamo agli oggetti materiali, un diritto esclusivo ed escludente. I beni materiali come le opere dell’ingegno non funzionano così, perché la ragione dell’uso esclusivo funziona in modo diverso.
Ed è proprio in questo contesto che nascono le prime linee di pensiero in contrapposizione alle limitazioni che si stavano sviluppando. Tra i primi ad opporsi alle nuove disposizioni ci fu Richard Stallman, ideatore della definizione di software libero nonché fondatore del GNU Project (Gnu’s Not Unix). Stallman inizia il progetto con lo scopo di rifare un sistema operativo che avesse qualità simili a quelle del sistema operativo Unix, ma che fosse comunque diverso.
L’idea che sta alla base della licenza libera del software è motivata da istanze etiche riguardanti la libera diffusione e la cooperazione.
Nella prima metà degli anni ‘90, alcuni sviluppatori si convinsero che l’enfasi sugli aspetti etici fosse d’intralcio alla diffusione del software libero in ambito industriale e iniziarono a dubitare anche dell’espressione “free software” che risulta essere un po’ ambigua (in quanto si può anche tradurre "free" come "gratis"). Quindi questo gruppo di sviluppatori pensò di fare re-branding dell’idea di software libero, creando la Open source Initiative ed evolvendo il concetto in quello di Open Source Definition, una definizione simile all’espressione di software libero nella sostanza, ma molto diversa nella forma. Questa definizione è articolata in 10 punti. Negli anni sono state create molte licenze di software libero diverse.
Il codice contenuto nel software, a livello giuridico, viene trattato dalle leggi sul diritto di autore. Nell'ambito del software si è introdotto un contratto, la licenza, il cui scopo è spesso quello di limitare ulteriormente i diritti di chi ne fruisce. Il software ha solitamente un proprietario che è colui che detiene i diritti di autore sul software stesso, cioè colui che possiede il copyright. L'uso del software può essere concesso gratuitamente o a pagamento, per le operazioni sancite dal contratto di licenza, o in sua mancanza per quanto stabilito dalla legge.[14]
Quando si parla di licenza libera (o aperta) del software, così come intesa nell’Art. 69[15] del CAD, si fa riferimento ad una licenza che garantisca all’utente di un software 4 libertà:
Le libertà 1 e 3 richiedono l’accesso al codice sorgente.
Si possono suddividere le licenze di software libero in quattro tipologie: licenze non copyleft, licenze copyleft deboli, licenze copyleft forti e licenze copyleft di rete.
Il codice sviluppato nelle licenze non copyleft può essere preso, modificato senza che il codice così risultante debba soggiacere alla stessa licenza. Le licenze che seguono questo paradigma vengono dette anche “ultraliberali”, nel senso che consentono di fare quel che si vuole. In ciò rientra anche rendere il software interamente proprietario.
In tali licenze, che per la tradizione storica vengono anche dette “accademiche” abbiamo licenze legate appunto all’ambito universitario: la BSD e, meno diffusa, la MIT.
Alle accademiche si accompagna un’altra licenza molto utilizzata, la Apache Public License, licenza usata dalla Apache Software Foundation, che si occupa del più famoso e utilizzato server web. La Apache, al contrario delle accademiche, è una licenza lunga, che comprende anche una clausola di risoluzione nel caso di uso aggressivo dei brevetti da parte di un licenziatario.[16]
Una licenza di copyleft forte tende a estendere il suo effetto vincolante il più possibile a qualunque “opera derivata” di software copyleft. Il copyleft forte richiede una struttura normativa più complessa e stringente, perché essendo “restrittivo” (nel senso che tende a imporre condizioni più stringenti ed effettive al fine di mantenere le libertà del software), richiede che tutti i “buchi” siano tappati, tutte le scappatoie siano evitate, in modo che il copyleft forte resista a chi cerca di evitarlo. Creare una licenza di copyleft forte è molto difficile.
Siccome le licenze di copyleft forte hanno condizioni più stringenti e peculiari, è molto facile che una di esse sia incompatibile con qualsiasi altra licenza di copyleft forte, perciò combinare software sotto due licenze di copyleft forte è in pratica impossibile. Anche combinare copyleft forte con copyleft debole, e a volte anche con non copyleft, si rivela sovente impossibile. Se non si possono rispettare le condizioni di licenza ‒ tutte le condizioni ‒ non si può usare il software, non si possono trarre opere derivate.
La licenza di copyleft forte è la GNU General Public License, o GPL della Free Software Foundation (FSF). Questa licenza è giunta alla sua terza versione.
Il copyleft debole è più recessivo rispetto al copyleft forte. Come idea, il copyleft debole opera a livello di file; per cui se uno sviluppatore appone le proprie modifiche a quel file, quel file rimane sotto la stessa licenza. Mentre se il codice sorgente di quel file viene compilato (“linkato”) con altro codice sorgente per creare un file oggetto che li comprenda (un’opera più ampia), il file oggetto risultante ‒ pur incorporando codice copyleft ‒ non necessita di essere pubblicato sotto le stesse condizioni, dunque non c’è interferenza in caso i due file sorgente siano sotto licenze incompatibili, e il prodotto risultante può anche essere sotto licenze proprietarie. Spesso infatti le licenze di copyleft debole sono usate per file destinati ad essere incorporati in altro software, tipicamente librerie.
Per il copyleft debole esistono due licenze: la GNU Lesser General Public License (un tempo “Library General Public License”, in quanto nata per le librerie GlibC, le librerie del compilatore C del progetto GNU) o LGPL; e la Mozilla Public License o MPL, la licenza di Firefox, uno dei più diffusi browser web (poi adottata anche da LibreOffice).[16]
Con la licenza copyleft di rete si ha diritto ad accedere al programma anche chi utilizza il programma da remoto.
Il copyleft scatta con la distribuzione, solo per chi distribuisce il software si pone dunque un problema effettivo di rispetto delle condizioni di licenza. Cosa accade, però, in quelle situazioni in cui non vi sia effettiva distribuzione, ma ciò non di meno il software venga messo a disposizione di terzi? In tal caso le licenze tradizionali nulla possono. Questo fenomeno è da tempo fonte di preoccupazione per alcuni osservatori, addirittura da prima che per il cosiddetto “Software as a Service” divenisse una forma effettiva di utilizzo del software, e invece di “cloud” si parlava di “Application Service Provider” (fornitore di servizi di applicazioni, abbreviato “ASP”). Infatti al fenomeno si diede il nome di ASP loophole (trucco dell’ASP), ovvero la possibilità per uno sviluppatore di poter sfruttare software copyleft, metterlo a disposizione di terzi, ma senza consegnare il codice, essendo così libero dalle incombenze del copyleft (forte o debole) in quanto le condizioni non sono attivate. In questo modo il fornitore in cloud beneficia di un bene comune, lo sfrutta commercialmente, ma non restituisce nulla al common.
Per tentare di ovviare a tale problema, Bradley Kuhn, un attivista americano, concepì una clausola aggiuntiva alla GNU GPL v.2 che venne conosciuta come “Affero clause” (dal nome del progetto per cui Kuhn lavorava e per cui concepì la clausola). La Affero è l’unica condizione di copyleft che viene attivata non dalla distribuzione, ma dall’uso del software in una particolare situazione: quella sfruttata per dare accesso tramite interfacce di rete al software modificato. In tali condizioni, chi modifica il software deve mettere a disposizione, tramite la stessa interfaccia di rete, l’intero codice sorgente corrispondente alla versione utilizzata. La clausola Affero, nata come un’aggiunta alla GPL, ha poi trovato spazio in una licenza sua propria, denominata GNU AGPL, nella quale rappresenta la clausola 13.1.[16]
Esistono altre licenze di copyleft di rete, come ad esempio la EUPL, nata nell’ambito delle istituzioni dell’Unione Europa.[17]
In Italia abbiamo due articoli che disciplinano l’uso del software libero nella pubblica amministrazione(PA):
Art 68 del CAD: prevede l’obbligo della valutazione comparativa; il comma 1bis spiega quali siano i criteri da considerare nella valutazione comparativa; il comma 1ter spiega che la valutazione comparativa va fatta seguendo una metodologia scritta nelle linee guida dell’AGID. Inoltre prevede l’obbligo di preferenza del software libero nelle pubbliche amministrazioni quando possibile.
Art 69 del CAD: parla del concetto di riuso del software sviluppato per una PA a favore delle altre PA e dei soggetti giuridici. Il concetto fondamentale è che le pubbliche amministrazioni devono consentire il riuso. Questa norma ha avuto una serie di modifiche, che hanno trasformato il concetto di riuso: dal 2016, con la modifica dell'articolo 69, il riuso non è più facoltà solo delle PA ma può essere chiesto dai soggetti giuridici (imprese, persone, enti no-profit ecc...). Un’altra novità della modifica del 2016 è l’obbligo di rendere disponibile a tutti il codice sorgente completo della documentazione e pubblicato in repertorio pubblico sotto licenza aperta, pur tenendo conto di eventuali eccezioni (“salvo motivate ragioni di ordine e sicurezza pubblica, difesa nazionale e consultazioni elettorali”). Il secondo comma definisce cosa debba fare una PA per mettersi nelle condizioni di poter distribuire il software con licenza libera, ovvero essere titolare del diritto di distribuzione con licenza libera.
Viene svolta seguendo dei criteri quali:
Le modalità di tale valutazione sono definite dalle https://www.agid.gov.it/it/design-servizi/riuso-open-source/linee-guida-acquisizione-riuso-software-pa%7C[collegamento interrotto] dell'AgID.
Esistono delle limitazioni legate al diritto d’autore di default che si applica anche alle banche di dati, per questo motivo anche in quest’ambito è necessario utilizzare delle licenze ad hoc per favorire il riuso e la condivisione delle banche di dati.
Da qui parliamo di licenze Open Data, ovvero licenze che regolano il riutilizzo e la distribuzione dei dati tenendo conto del riconoscimento della paternità di chi ha licenziato la base di dati. È importante però tenere sempre conto del fatto che se i dati contenuti riguardano persone sono soggetti alla privacy e di conseguenza non possono circolare in modo del tutto libero.
La licenza MIT, chiamata anche "license X" o "license X11", è una licenza di software libero creata dal Massachusetts Institute of Technology (MIT). È una licenza permissiva o week copyleft, la quale permette il riutilizzo nel software proprietario con la condizione che la licenza sia distribuita con tale software. Non pone vincoli all'utilizzo del software modificato, infatti a differenza della licenza GPL, con il software licenziato con essa si può creare software proprietario. MIT è anche GPL-compatibile, cioè è possibile combinare e ridistribuire software GPL con codice che usa la licenza MIT. La licenza è simile alla licenza BSD, tranne per il fatto che quest'ultima contiene una nota che proibisce l'utilizzo del nome del detentore del copyright per fini pubblicitari.
Viene usata prevalentemente nell'ambito della Pubblica Amministrazione dei paesi membri dell'Unione Europea.
In molte regioni italiane la preferenza per il software libero è prevista anche da prima del 2012 attraverso varie leggi regionali:
All’estero solo dopo il 2012 (ad esempio in Ecuador e Francia) viene introdotta una norma che impone la preferenza nelle pubbliche amministrazioni per il software libero.