Nel mondo di oggi, Italia romana è diventato un argomento di grande rilevanza e interesse per un gran numero di persone. Il suo impatto si estende a diversi aspetti della vita quotidiana, dalla politica all’intrattenimento. Senza dubbio Italia romana ha catturato l’attenzione dell’intera società e ha generato un intenso dibattito in diversi ambiti. In questo articolo esploreremo nel dettaglio i vari aspetti legati a Italia romana, in modo da fornire una panoramica ampia e completa di questo affascinante argomento.
Italia romana | |||||
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L'Italia e le sue regiones al tempo di Augusto; oltre alle province di Sicilia e Sardinia et Corsica. | |||||
Informazioni generali | |||||
Nome ufficiale | (LA) Italia | ||||
Capoluogo | Roma (de iure: 753 a.C. - 476 d.C.); 1.000.000 abitanti (durante il principato di Augusto) | ||||
Altri capoluoghi |
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Dipendente da | Repubblica romana Impero romano Impero romano d'Occidente | ||||
Amministrazione | |||||
Forma amministrativa |
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Evoluzione storica | |||||
Inizio | VII secolo a.C. | ||||
Causa | Conquiste avvenute durante l'età regia di Roma | ||||
Fine | 476 d.C. | ||||
Causa | Caduta dell'Impero romano d'Occidente | ||||
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Cartografia | |||||
L'Italia all'interno dell'Impero romano (in rosso), circondata dalle province (in rosa). |
L'Italia (latino: Italia), nella sua interezza peninsulare, costituiva la terra patria degli antichi romani e il territorio metropolitano dell'impero di Roma; come tale, e in quanto estensione dall'Ager Romanus, differiva dalle province.[1][2][3] Aveva uno status giuridico unico e distinto da quello di qualsiasi altro territorio al di fuori di essa. Anche a seguito della sua articolazione in province in epoca tardo-antica mantenne uno status che le valse l'appellativo, datole dai glossatori del Corpus Iuris Civilis, di Domina Provinciarum ("Sovrana delle Province").[4][5][6] Essa rappresentava la patria ancestrale e il suolo natio della civiltà romana, nonché, giuridicamente, l'assoluto centro amministrativo, economico, culturale e politico della Repubblica (a partire dalla metà del III secolo a.C.) e dell'Impero in età classica;[7][8][9][10][11] facendo sì che la penisola fosse conosciuta anche - soprattutto in relazione ai primi secoli di stabilità imperiale - come Rectrix Mundi ("Governatrice del Mondo")[12][13] ed Omnium Terrarum Parens ("Genitrice di Tutte le Terre").[14][15]
L'unificazione delle popolazioni italiche in un'unica entità geografica, culturale e politica, identificabile con la parte peninsulare dell'attuale Italia, richiese a Roma una serie di lunghe e difficili guerre di conquista, di colonizzazioni e di alleanze.[3] Le tappe principali furono la conquista del primato sul Latium vetus durante l'intera epoca regia e poi l'assoggettamento, l'assimilazione e la federazione della penisola dai fiumi Arno e Rubicone allo stretto di Messina durante il primo periodo repubblicano (fino al 264 a.C.). Roma procedette poi a sottomettere i territori celti a nord degli Appennini grazie alla conquista della Gallia Cisalpina (225-200 a.C.), per poi assoggettare le limitrofe popolazioni di Veneti (a nord-est) e Liguri (a nord-ovest), fino a raggiungere la base delle Alpi.[16] Parallelamente, il nome d'Italia si estese gradualmente dalla moderna Calabria, suo luogo d'origine, verso il nord, fino a giungere alle Alpi, designando in tale modo l'intera penisola italiana e, posteriormente, a partire da Diocleziano (dopo il 292 d.C.), anche le vicine grandi isole mediterranee (le ex province repubblicane di Sicilia e Sardinia et Corsica, costituenti entrambe anche le prime e più antiche province romane), portando così l'Italia a comprendere amministrativamente l'intera regione geografica italiana.[5]
L'Italia romana era un territorio vasto e contrassegnato da una notevole varietà culturale e sociale che, pur conservando forti particolarismi locali, subì, sin dalla metà della Repubblica romana, un processo di unificazione sotto un unico regime giuridico. In epoca repubblicana, il territorio romano della penisola italiana si articolava in municipi e colonie di cittadini di pieno diritto, in colonie di diritto latino e in comunità federate di socii (alleati), i quali ottennero tutti la piena cittadinanza romana in seguito alla guerra sociale. Si stima che, all'inizio del VI secolo a.C., nell'Italia peninsulare vivessero all'incirca 3 milioni di abitanti, saliti a 5 milioni nell'Italia augustea del 14 d.C., dato che non comprende gli schiavi e gli stranieri (peregrini) presenti nella penisola (il cui numero avrebbe potuto far salire la popolazione totale a circa 8 milioni), ma solo i cittadini di pieno diritto.[17]
A partire dalla tarda età repubblicana e durante tutto il successivo Impero, gli abitanti liberi della penisola erano tutti cittadini romani (facendo dell'Italia anche l'unico territorio all'interno del mondo romano i cui abitanti erano esclusivamente cittadini romani di pieno diritto, almeno fino alla Constitutio Antoniniana del 212 d.C., quando la cittadinanza romana venne elargita uniformemente nei territori provinciali), i quali erano esenti da diversi tipi di imposte, come quelle fondiarie e sulla proprietà privata (ad esempio, il tributum soli e il tributum capitis), riservate invece agli abitanti (cittadini e non) dei territori provinciali, che erano considerati proprietà del popolo romano: tale prerogativa andava riconosciuta attraverso il pagamento di queste imposte.[3] Relazionato allo status unico dell'Italia era anche lo Ius Italicum, consistente nell'onorificenza che poteva essere conferita, in casi eccezionali, a determinati centri abitati (colonie e municipi) situati nelle province, ai quali, in seguito al riconoscimento di tale privilegio, veniva concessa la finzione giuridica di trovarsi in suolo italico, venendo quindi esentati da tutte le comuni imposte provinciali, come se fossero italici o se la loro comunità fosse situata in Italia.[18]
Durante il principato di Augusto, l'Italia venne ulteriormente privilegiata; la sua suddivisione in undici regiones (Latium et Campania; Apulia et Calabria; Lucania et Bruttii; Samnium; Etruria; Picenum; Umbria; Aemilia; Venetia et Histria; Liguria; Transpadana) evidenziava la sua unicità all'interno del panorama imperiale. Da un punto di vista urbanistico e in riferimento alla costruzione di infrastrutture, Augusto fece costruire in Italia una fitta rete stradale e abbellì le città della penisola dotandole di numerose strutture pubbliche, come fori, templi, anfiteatri, teatri e terme. Il capoluogo dell'Italia romana fu Roma, che sotto Augusto raggiunse il milione di abitanti,[19] e che lo restò de iure anche quando le città di riferimento della penisola diventarono Mediolanum e Ravenna, che assunsero il ruolo di capitali dell'Impero romano d'Occidente de facto, rispettivamente, dal 286 al 402 e dal 402 al 476. L'Italia, e con essa la stessa Roma, andò tuttavia perdendo la propria condizione di privilegio rispetto alle province sul finire del III secolo, in seguito alla sostanziale parificazione politica di tutti i territori dell'Impero: simbolica fu l'istituzione da parte di Diocleziano della Diocesi d'Italia,[20] da Costantino suddivisa in Italia Suburbicaria e Italia Annonaria. L'Italia romana ebbe termine nel 476 d.C., con la caduta dell'Impero romano d'Occidente.[21][22]
Come suggerisce lo storico italiano Giovanni Brizzi, il concetto di Italia è un'invenzione di Roma antica.[23] La nascita in Italia del senso di nazione, poi tanto evocato durante il Risorgimento, e l'origine dello stesso concetto di popolo italiano, sono stati sintetizzati da Giulio Giannelli con queste parole, richiamando l'unificazione della penisola italiana durante l'epoca romana[24]:
« L'idea, la concezione dell'Italia fisica, dell'Italia regione geografica, presero forma soltanto dopo e come conseguenza dell'unificazione politica ed etnica di tutta la regione a sud delle Alpi. »
Si può osservare come la nozione di Italia romana sia una realtà dinamica, in divenire fino all'età augustea. Infatti, se inizialmente esistevano un'Italia greca (limitata al Mezzogiorno italiota) e un'altra etrusca (separata dagli Appennini dal mondo gallico e greco), esisteva senz'altro una prima Italia romana, coincidente al principio con la grande regione costiera occidentale compresa tra l'Etruria meridionale e l'Ager Campanus, e che nella concezione di Appiano di Alessandria escludeva i Sanniti.[23][25] Episodio chiave per quella che si avviava a divenire l'Italia romana fu certamente la vittoria di Roma sui Latini nella guerra degli anni 341-338 a.C., la quale portò allo scioglimento definitivo della Lega Latina.[26]
Dei confini dell'Italia parlava Antioco di Siracusa (V secolo a.C.) nella sua opera Sull'Italia,[28] il quale la identificava con l'antica Enotria. A quel tempo si estendeva dallo stretto di Sicilia fino al golfo di Taranto (a est) e al golfo di Posidonia (a ovest).[29] In seguito, con la conquista romana dei secoli successivi, il termine Italia venne ampliato a tutti i territori a sud della catena delle Alpi, comprendendo, pertanto, anche la Liguria (fino al fiume Varo) e l'Istria fino a Pola.[29] Di fatto tutti i suoi abitanti furono considerati Italici e Romani.[29]
È importante notare che fino al 292, la Sicilia, la Corsica e la Sardegna non erano considerate come parte dell'Italia. Soltanto sotto Diocleziano le province di Sicilia e Sardegna e Corsica verranno annesse alla "Diocesis Italiciana".[30]
Il territorio di Roma crebbe di pari passo con le conquiste operate nei secoli, a partire dai 983 km2 al momento della cacciata dei Tarquini (509 a.C.), per raggiungere i 3 098 km2 poco prima dell'inizio della guerra latina (341-338 a.C.).[31] Con la definitiva vittoria romana sui Sanniti (298-290 a.C.), al controllo della federazione romana rimanevano esclusi solo i territori dei Bruzi, dei Greci Italioti nel meridione italico, e, nel settentrione, il tratto più remoto dell'Etruria e la Gallia cisalpina a nord degli Appennini. Il territorio romano raggiunse in questo periodo una superficie di circa 13 000 km2, mentre, quello federato dei socii italici, era costituito, a sua volta, da 62 000 km2. Si trattava ormai del quarto Stato per estensione territoriale tra quelli che si affacciavano sul Mar Mediterraneo, vale a dire dopo la Siria seleucide, l'Egitto tolemaico e l'Impero di Cartagine.[32]
Antecedentemente alla prima guerra punica (264 - 241 a.C.), al momento della fondazione di Ariminum (nel 268 a.C.), la superficie dei territori annessi a Roma era giunta a circa 27 000 km2.[31] Dato che un terzo dei nuovi territori era di proprietà dello Stato, la superficie dell'ager publicus era costituita da più di 800 000 ettari, determinando il moltiplicarsi sia dei piccoli poderi degli agricoltori liberi attraverso le assegnazioni viritane, sia la formazione di grandi proprietà terriere da parte delle classi sociali elevate. In seguito alla conquista romana della Gallia Cisalpina (intorno 190 a.C.), il territorio romano raggiunse i 55 000 km2.[31] Posteriormente, nell'89 a.C., al termine della guerra sociale, quando gli abitanti della penisola erano ormai tutti cittadini di pieno diritto, il territorio romano d'Italia raggiunse i 160 000 km2, e poi, nel 49 a.C., i 237 000 km2, grazie alla Lex Roscia che concedeva il Plenum ius a tutti gli abitanti della Gallia Cisalpina,[31] la quale, venendo annessa al territorio dell'Italia romana, venne definitivamente abolita come provincia nel 42 a.C..[33]
L'Italia romana era un territorio vasto ed etnoculturalmente vario, che, pur conservando forti particolarismi locali, subì, sin dalla metà dell'epoca repubblicana, un processo di unificazione sotto un unico regime giuridico. Si stima che, all'inizio del VI secolo a.C., nell'Italia peninsulare, vivessero all'incirca 3 milioni di abitanti, di cui: 100 000 Piceni, 130 000 Lucani, 160 000 Latini, 200 000 Campani, 200 000 Bruzi, 280 000 Umbri, 300 000 Sanniti e 450 000 Iapigi.[34][35] A questi si aggiungevano, approssimativamente, 600 000 Etruschi e all'incirca 500 000 Italioti (abitanti della Magna Grecia).[17][36]
Tito Livio racconta[37] come, nel 459 a.C. (in effetti fa riferimento al consolato di Quinto Fabio Vibulano e Lucio Cornelio Maluginense Uritino), si sia concluso il decimo censimento ab Urbe condita, dal quale risultarono 117 319 cittadini romani.[38] Durante la terza guerra sannitica, nel 294 a.C., il nuovo censimento contò ben 262 321 cittadini.[39] Pochi anni più tardi, nel 289 a.C., al termine dell'ultima guerra sannitica, i cittadini erano aumentati a 272 000 unità.[40]
Alla vigilia della prima guerra punica (nel 265 a.C.), i cittadini aumentarono notevolmente fino a raggiungere le 382 234 unità.[41] Pochi anni prima che terminasse questa prima guerra per l'egemonia sul Mediterraneo occidentale (nel 247 a.C.), i cittadini erano diminuiti a 241 212,[42] a un livello inferiore alla fine della grande guerra sannitica.[40] Il punto più basso venne però raggiunto durante la guerra annibalica (nel 209 a.C.) con soli 137 108 cittadini, a causa delle numerose disfatte subite (in primis Canne, dove perirono non meno di 60/70 000 soldati romani/italici[43]) e della defezione di parte dei socii, soprattutto nel meridione italico.[44]
Una volta terminata la seconda guerra punica con la vittoria di Roma (202 a.C.), la ripresa fu lenta e graduale a causa delle continue guerre di conquista della parte orientale del Mediterraneo, tanto da far segnare 258 318 cittadini nel 189 a.C.,[45] 269 015 nel 174 a.C.,[46] 312 805 nel 169 a.C.[47] per poi raggiungere 394 336 cittadini quasi un secolo dopo la sconfitta di Annibale (115 a.C.),[48] e comunque pari al risultato riscontrato alla vigilia della prima guerra punica.[41]
Un dato estremamente interessante e importante, riguardante la demografia della città di Roma, è quello fornitoci da Livio, che, a pochi anni dalla fine della guerra sociale (86 a.C.) e poi dopo la fine della dittatura di Lucio Cornelio Silla (70 a.C.), vide censiti, rispettivamente, 463 000 e 910 000 cittadini romani residenti nella città, molti dei quali erano italici stabilitisi nell'Urbe a pochi anni di distanza dall'aver ricevuto la piena cittadinanza in seguito alla guerra sociale.[31][49][50] L'incremento demografico dell'intera Italia al tempo di Augusto, dopo una notevole politica di colonizzazione compiuta da lui e dal padre adottivo, Gaio Giulio Cesare, fu rilevato tramite tre censimenti: i cittadini dell'Italia erano 4 063 000 nel 28 a.C.,[51] 4 233 000 nell'8 a.C.[51] e 4 937 000 nel 14 d.C.[51] dato che è da considerarsi comprensivo anche di donne e bambini, ma non include ovviamente le cifre riguardanti gli schiavi e gli stranieri (peregrini) residenti nella penisola, il cui numero avrebbe potuto far salire la popolazione totale a circa 8 milioni.[31] Durante il principato di Augusto Roma raggiunse il milione di abitanti.
Il declino demografico dell'Italia viene collocato, nella sua forma più grave, a partire dalla peste antonina (165-180). Il focolaio scoppiò di nuovo nove anni dopo, secondo lo storico romano Cassio Dione, e causò fino a 2 000 morti al giorno a Roma, un quarto degli infettati.[52] La peste imperversò nell'impero per quasi trent'anni, facendo, secondo le stime, tra i 5 e i 30 milioni di morti, Italia compresa.[53] La malattia uccise circa un terzo della popolazione in alcune zone e decimò l'esercito romano.[54]
Con l'ascesa di Roma ebbe, così, inizio il primo processo di unificazione culturale e politica della penisola italica. I territori acquisiti mediante la guerra passavano alla proprietà del popolo romano ed erano definite perciò ager publicus, il quale veniva assegnato, in proprietà o in affidamento, a comunità attraverso la fondazione di colonie o a singoli (viritim). La fondazione di più di trecento colonie, città-Stato che dipendevano direttamente dal potere centrale di Roma,[32] i cui cittadini provenivano dal Lazio e legate a Roma da trattati che ne regolamentavano il commercio, la difesa e i rapporti esteri, giocò un ruolo chiave nella trasmissione dell'identità culturale romana nelle regioni in cui venivano istituite.[55]
La federazione romana andò via via ampliandosi nel corso dei secoli, andando a comprendere soluzioni amministrative e politiche differenti.
In seguito alla guerra sociale (91-89 a.C.), che vide i socii dell'Italia centrale e meridionale ribellarsi a Roma attraverso la richiesta di essere integrati nello Stato romano come cittadini di pieno diritto, la stessa alla fine fu costretta a concedere la piena cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell'Italia residenti a sud del fiume Arno tramite la Lex Plautia Papiria,[63] nell'89 a.C., legge che estese la cittadinanza romana anche a quella parte di cisalpini residenti a sud del Po, ossia agli abitanti di quel territorio dell'Italia settentrionale (Gallia Cisalpina) detto "cispadano", e compreso tra il Po e l'Arno.[64] Già alla fine della Repubblica, l'Italia era unita sotto un solo regime giuridico.[49] La concessione della cittadinanza romana portò:
Nel 49 a.C., la cittadinanza romana venne estesa anche alla parte "transpadana" della Gallia Cisalpina (Italia settentrionale compresa tra le Alpi e il Po), e cioè ai restanti Galli cisalpini e ai Veneti, attraverso la Lex Roscia,[66] andando a coronare la tanto attesa integrazione sociale dell'intera penisola italica, divenendo di fatto, tutti gli Italici, Romani a tutti gli effetti.[29][67] Sette anni più tardi, mentre una nuova guerra civile era in atto, nel 42 a.C., la recente provincia della Gallia Cisalpina fu abolita ed annessa, a pieno titolo, al territorio dell'Italia romana, la quale, a partire da questo momento, ingloberà giuridicamente tutto il territorio peninsulare a sud delle Alpi. Non dimentichiamo che le città "transpadane" avevano già ottenuto la cittadinanza romana da Cesare sette anni prima,[67] e lo Ius Latii nell'89 a. C., attraverso la Lex Pompeia de Transpadanis.
Ora tutta l'Italia, a differenza dei territori provinciali, era governata e retta direttamente dal Senatus Romanus (Senato romano), e tale status permetteva ai magistrati romani di esercitare, in alternativa all'Imperium militiae (potere militare), che era l'unico tipo di imperium esercitato nelle province,[68] il cosiddetto Imperium domi (potere civile e di polizia), esclusivamente all'interno dei confini italici.
Con l'avvento dell'Impero Augusto provò a riorganizzare le città della penisola in base a criteri etnici, linguistici, nonché geografici, probabilmente a causa del fallimento del precedente sistema organizzativo in tribù territoriali. Non si hanno certezze riguardo alla finalità dell'organizzazione dell'Italia in regiones; tra le ipotesi più probabili c'è che le regiones dovessero costituire il nuovo quadro per i censimenti o per il sistema fiscale. Come riferito da Plinio il vecchio nella sua Naturalis Historia, Augusto riorganizzò l'Italia suddividendola in 11 regioni:
Svetonio e le Res gestae divi Augusti parlano della fondazione di ben 28 colonie in Italia da parte di Augusto.[72][73] Riconobbe, in un certo qual modo, l'importanza di queste colonie, attribuendo diritti uguali a quelli di Roma, permettendo ai decurioni delle colonie di votare, ciascuno nella propria città, per l'elezione dei magistrati di Roma, facendo pervenire il loro voto nell'Urbe, il giorno delle elezioni.[72]
Al tempo di Tiberio (14-37 d.C.), fu assegnata al senato di Roma la giurisdizione in campo religioso e sociale su tutta l'Italia.[74] Lo stesso imperatore, nel 19, rese illegale i culti caldei e giudaici, e coloro che li professavano furono costretti all'arruolamento o espulsi dall'Italia.[74]
Sotto Traiano (98-117), sia in Italia sia nelle province, il vecchio governo di tipo municipale comincia a non reggere più. Oggi, tuttavia, questa visione dell'evergetismo imperiale come espressione di una volontà di dominio diretto sulle città non è più condivisa da tutti gli studiosi. Il lavoro di F. Jacques ha mostrato infatti la distanza che separava l'autorità imperiale dall'autogoverno della città anche in questo periodo. Ciò non esclude, in ogni caso, che l'amministrazione imperiale mantenesse controllate le città.
Per rafforzare questo controllo, Adriano assegnò l'Italia a quattro consolari portanti il titolo di legati propretori, utilizzato per i governatori delle province. Il moto di protesta sollevato nel senato, che era rappresentante dei vari municipi d'Italia, lesi nella loro autonomia garantita da secoli, fece sì che la misura fosse annullata dal suo successore, Antonino Pio. L'Italia aveva ancora in questo periodo la forza necessaria a rivendicare la propria dignità di territorio egemone dell'Impero, ma questo stato di cose sarebbe durato poco di fronte a imperatori provinciali più determinati.
La riforma di Adriano rispondeva tuttavia a una reale esigenza: le regioni dell'Italia avevano bisogno di un'amministrazione più gerarchizzata, in particolare nel campo della giustizia civile. Per ovviare a questa necessità, Marco Aurelio creò nel 165 i giuridici (iuridici), che esercitavano nei distretti dal taglio geografico abbastanza mutevole. La zona localizzata nei 100 miglia intorno a Roma dipendeva dal prefetto della Città, che vide le sue prerogative aumentate sotto i Severi. Fuori da questa zona, e per gli affari gravi o che toccavano gli interessi dell'imperatore, o ancora alle domande di mantenimento dell'ordine, potevano intervenire i prefetti del pretorio, come avvenne verso il 168, quando costrinsero la città di Saepinum a rispettare il diritto dei pastori transumanti.
Il sistema amministrativo dell'Italia imperiale rimase distinto da quello delle province fino all'epoca di Diocleziano. Le province erano infatti territori governati da magistrati delegati dal potere centrale,[75] mentre l'annessione e poi l'amministrazione dell'Italia si era articolata per secoli attraverso la fondazione di colonie romane e latine, la sottoscrizione di alleanze con socii, la confisca di alcuni territori (ager publicus) e la concessione della cittadinanza (parziale o completa a seconda dei casi) ad alcune comunità (municipia).
Sotto Costantino I (314), la diocesi d'Italia fu suddivisa in due partizioni amministrative o vicariati, ognuna governata da un vicarius: l'Italia Suburbicaria e l'Italia Annonaria.[30] In realtà le fonti dell'epoca, come il Laterculus Veronensis e la Notitia Dignitatum, attestano che de iure l'Italia continuava ad essere suddivisa in una sola diocesi, la dioecesis Italiciana, a sua volta suddivisa in due vicariati.[76]
Comunque, essendo Italia Annonaria e Italia Suburbicaria rette ognuna da un vicarius (la massima autorità civile di una diocesi), esse sono spesso dette impropriamente diocesi in quanto de facto lo erano pur non essendolo de iure.
Il capoluogo dell'Italia romana fu Roma, che lo restò de iure anche quando le città di riferimento della penisola diventarono Mediolanum e Ravenna, che assunsero il ruolo di capitali dell'Impero romano d'Occidente de facto, rispettivamente, dal 286 al 402 e dal 402 al 476.
Evoluzione delle regioni dell'Italia romana | |||||||||||||||
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Prima della fondazione di Roma |
Umbria (Umbri)
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Fino al 509 a.C. | Pianura padana (Celti, Liguri, Veneti ed Etruschi)
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Campania antica (Campani)
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Etruria (Etruschi)
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Umbria (Umbri)
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Piceno (Piceni)
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Sannio (Sanniti)
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Apulia (Dauni, Peucezi e Messapi)
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Lucania e Bruzio (Lucani e Bruzi)
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Sicilia (Cartaginesi e Greci)
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Sardegna (Sardi e Cartaginesi)
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Corsica (Corsi ed Etruschi)
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Dal 264 a.C. | Pianura padana (Liguri, Celti, Veneti e Etruschi)
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Italia romana
Territorio formato da cittadini di pieno diritto (es. colonie romane) e cittadini sine suffragio (es. i municipia), le colonie di diritto latino e gli alleati (tra cui l'Ager Gallicus) |
Sicilia (Cartaginesi e Greci)
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Sardegna (Sardi e Cartaginesi)
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Corsica (Corsi e Cartaginesi)
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Dal 241 a.C. | Occupazione romana (dal 222 a.C.)
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Italia romana (idem)
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Sicilia
(provincia dal 241 a.C.) |
Sardegna e Corsica (provincia dal 237 a.C.) | |||||||||||
Dall'88 a.C. (fine guerra sociale) | Gallia Cisalpina (costituita in provincia post 90 a.C.)
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Italia romana (cittadini)
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Sicilia (provincia)
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Sardegna e Corsica (provincia)
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Dal 49 a.C. | Gallia cisalpina (provincia di cittadini)
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Italia romana (cittadini)
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Sicilia (provincia)
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Sardegna e Corsica (provincia)
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Dal 42 a.C. | Italia romana (cittadini)
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Sicilia (provincia)
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Sardegna e Corsica (provincia)
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Dal 7 d.C. (Italia augustea) | Sicilia (provincia)
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Sardegna e Corsica (provincia)
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Dal 292 (Diocleziano) | |||||||||||||||
Dal 314 (Costantino I) |
Mappa del Latium vetus |
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La sottomissione delle popolazioni italiche e l’unificazione di questi popoli in un'entità geografica identificabile con l'attuale penisola italica, richiese a Roma una serie di guerre di conquista e di colonizzazioni lunghe e difficili. Le tappe principali furono, la conquista del primato sul Latium vetus durante l’intera epoca regia e poi la conquista della penisola dall'Arno allo stretto di Messina durante il primo periodo repubblicano (fino al 264 a.C.).
A partire poi dalla prima guerra punica (264-241 a.C.) i territori soggetti al dominio romano andarono a comprendere anche Sicilia (241 a.C.), Sardegna e Corsica (238 a.C.), isole trasformate in province.[77][78]
Ancora nel III secolo a.C., nonostante l'opera di conquista dell'Italia da parte di Roma fosse quasi ultimata, non vi esisteva ancora un sentimento di appartenenza comune. Fu la seconda guerra punica (218-202 a.C.) a porne le basi. Dopo la sconfitta di Annibale (202 a.C.), i romani si rivalsero infatti sui popoli che, pur essendo sottomessi a Roma, si erano ribellati e coalizzati con Cartagine. Alcune città del sud Italia furono rase al suolo, mentre i pochi Galli rimasti nella Gallia Cispadana furono completamente annientati.
Inoltre, moltissime comunità, sia del nord sia del sud, furono forzatamente sradicate dalla loro patria natia e deportate altrove.[79][80] I Liguri Apuani, ad esempio, furono deportati in massa (47 000 persone) nel Sannio e nella Campania.
Il processo di romanizzazione e di omogeneizzazione della penisola iniziò a questo punto a dare i suoi frutti. Nel Meridione, ad esempio, gli aristocratici italici iniziarono a organizzare matrimoni misti con le aristocrazie romane ed etrusche, al fine di creare intrecci coniugali che garantissero la strutturazione di legami di sangue in tutta la penisola. Questi legami ebbero talmente tanto successo che, a partire dal I secolo a.C., numerosi personaggi politici di primo piano potevano annoverare tra i loro antenati famiglie etrusche, sannite, umbre e via discorrendo.[81]
In concomitanza poi con la guerra annibalica, Roma procedette a sottomettere anche i territori celti a nord degli Appennini della Gallia cisalpina (dal 222[82] al 200 a.C.[83]) e poi delle limitrofe popolazioni di Veneti (a oriente) e Liguri (a occidente) fino a raggiungere la base delle Alpi.
Con la seconda metà del II secolo a.C. gli alleati italici (socii) iniziarono a chiedere la cittadinanza romana, che però ottennero dopo una dura e sanguinosa guerra sociale, nell’89 a. C., attraverso la Lex Plautia Papiria. Fu l'ultimo e fondamentale passo dell'integrazione italica nel mondo romano, e dunque della conseguente fusione delle varie culture etniche in un un'unica identità politica e culturale. I socii Italici si coalizzarono contro Roma (Velleio Patercolo scrive addirittura «tutta l'Italia si levò contro Roma»[84]) e, se da un lato la coalizione italica perse la guerra, ottenne ugualmente la tanto agognata cittadinanza romana.[29] Fu al termine di questa «grande guerra» (come la definì Diodoro Siculo[85]), che le differenze fra l'Italia e le province si fecero più evidenti.
Nel 49 a.C., la cittadinanza romana venne estesa anche alla parte "transpadana" della Gallia Cisalpina (Italia settentrionale compresa tra le Alpi e il Po), e cioè ai restanti Galli cisalpini e ai Veneti, attraverso la Lex Roscia (49 a.C.),[66] mentre, nel 42 a.C., la recente provincia della Gallia Cisalpina venne abolita ed annessa, a pieno titolo, al territorio dell'Italia romana, la quale, a partire da questo momento, ingloberà giuridicamente tutto il territorio peninsulare a sud delle Alpi. Non dimentichiamo che le città "transpadane" avevano già ottenuto la cittadinanza romana da Cesare sette anni prima,[86] e lo Ius Latii nell'89 a. C., attraverso la Lex Pompeia de Transpadanis.
Questi ultimi due eventi coronarono la tanto attesa integrazione sociale dell'intera penisola italica, divenendo di fatto, tutti gli Italici, Romani a tutti gli effetti.[29][87] La concessione della cittadinanza aveva permesso a Roma in questi secoli di Repubblica, di diffondere ovunque la propria lingua, i costumi, le istituzioni.
Con la fine del periodo delle guerre civili, Ottaviano Augusto intraprese la conquista delle valli alpine (dalla Valle d'Aosta fino al fiume Arsia in Istria). In seguito alla conquista dell'intero arco alpino, divise l’Italia in 11 regioni (7 d.C. circa).[71]
Durante la seconda guerra punica (218-202 a.C.), numerose furono le legioni dislocate sul territorio italico a partire dal 218 a.C., quando, il console Publio Cornelio Scipione,[88] si recò nella Gallia cisalpina con due legioni e tre alae di socii italici[89] a difendere i confini settentrionali contro l'avanzata di Annibale, scontrandosi con l'esercito cartaginese prima al Ticino[90] e poi alla Trebbia.[91] In seguito alla terribile disfatta di Canne (216 a.C.), si arrivarono a schierare fino a 25 legioni complessive, molte delle quali sul suolo italico (ben 16, oltre a 4 in Sicilia e 2 in Sardegna), come risulta dalla tabella riassuntiva sottostante:
E se allo scoppio della guerra civile tra Cesare e Pompeo (49 a.C.), vi erano in Italia una decina di legioni (due delle quali a Luceria, in Apulia, e almeno 4 tra Piceno e territorio dei Marsi),[115] nel 44 a.C., alla morte di Cesare,[116] una legione romana era collocata in Sardegna e una a Capua (la VII[117]), mentre tre probabilmente in Gallia Cisalpina nei pressi di Aquileia.[118]
Con l'avvento della riforma militare augustea, la "spina dorsale" dell'esercito romano rimase ugualmente la legione, in numero di 28 (25 dopo Teutoburgo). Ogni legione era composta di circa 5 000 cittadini, in prevalenza Italici (attorno al 65%, molti dei quali provenienti dai territori cisalpini, rispetto a un 35% di provinciali, muniti anch'essi di cittadinanza romana), per un totale di circa 140 000 uomini (e poi circa 125 000),[119] che si rinnovavano con una media di 12 000 armati all'anno. Le legioni erano arruolate fra i circa 4 000 000 di cittadini romani.[51]
Sappiamo che nel 66,[120] al tempo dell'imperatore Nerone, fu arruolata la legio I Italica[121] e ricevette le aquile il 20 settembre[122] in previsione di una spedizione in oriente;[123] fu costituita da reclute nate in Italia e alte almeno sei piedi romani (1,77 metri circa, poiché un piede corrispondeva a 29,65 cm), che l'imperatore chiamava la "Falange di Alessandro Magno".[124] Ricevette il nome di Italica e fu acquartierata in Mesia inferiore.[121]
La posizione egemonica dell'Italia, in campo militare, cominciò ad attenuarsi a partire dal II secolo. Le legioni, oramai stanziate stabilmente lungo le frontiere dell'impero, iniziarono ad essere reclutate direttamente nelle regioni dove servivano, soprattutto a partire dall'epoca di Adriano. Il reclutamento italico nelle legioni cominciò a ridursi a partire da Vespasiano, anche se rimase largamente maggioritario il contributo italico sia nella guardia pretoria, che tra le coorti urbane, gli ufficiali e i centurioni (80% nel II secolo) dell'esercito schierato lungo le frontiere.[125] Rappresentò, quindi, un'eccezione il reclutamento delle due nuove legioni, II e III Italica sotto Marco Aurelio, in seguito all'invasione germanica del 170 in territorio italico,[121] o la IV Italica reclutata da Alessandro Severo per la guerra persiana.[126][127]
Le guarnigioni di Roma furono riorganizzate da Augusto in nove coorti pretorie nel 27-26 a.C. (da I a IX, il cui simbolo era lo scorpione), inizialmente posizionate quasi tutte nei dintorni di Roma (a parte 3)[128][129] e nelle più importanti città italiane (tra cui Aquileia). La scelta di nove coorti fu dettata dalla necessità di non far apparire la presenza a Roma di una legione, composta da 10 coorti, che sarebbe stata considerata contraria alla sacralità della città[129] e che, per la legge del tempo di Silla, proibiva la presenza di armati nella penisola italica (nella parte sottoposta all'autorità di diretta dei magistrati di Roma). Si trattava della guardia personale a difesa dell'Imperatore, la cui origine sembra sia derivata dalla Repubblica, quando i pretori erano accompagnati da un piccolo gruppo di armati.
Per questi motivi Augusto volle che questo corpo di truppa fosse scelto tra i migliori soldati dell'intero esercito romano (di provenienza per lo più dall'Italia centrale), posto sotto il comando di uno o due prefetti di rango equestre (a partire dal 2 a.C.),[130] e dove Mecenate se ne può considerare, in un certo modo, il più antico prefetto.[131] I due prefetti avevano come collaboratori, un tribuno per singola coorte, provenienti per lo più dal primpilatus (entrando a far parte di diritto dell'ordine equestre). Nel 13 a.C. il servizio fu fissato in dodici anni, e poi nel 5 d.C. a sedici, con una paga inizialmente di 1,5 volte quella di un normale legionario,[132] poi di molto superiore.
Vi è da aggiungere che Augusto volle anche una "personale guardia del corpo", per una maggior sicurezza sua e della sua famiglia imperiale, quasi fosse "privata" (in numero compreso tra i 100 e i 500 armati), reclutati tra i Calagurritani fino alla sconfitta di Antonio e poi tra le popolazioni germaniche dei Batavi (Germani corporis custodes),[128][132] i quali furono però sciolti dopo la clades variana del 9, e poi ricostituiti poco prima della morte dello stesso imperatore.[133] Nel 68 questo corpo fu definitivamente sciolto dall'Imperatore Galba, poiché li riteneva fedeli al precedente imperatore Nerone, morto da poco. Questa decisione provocò un profondo senso di offesa nei confronti dei Batavi, i quali poco dopo si rivoltarono l'anno seguente.[134]
Vi erano, inoltre, tre coorti urbane di 500 armati ciascuna (create nel 13 a.C., con la numerazione di X, XI e XII, in successione a quelle pretorie), le quali avevano funzioni di polizia "diurna" e ordine pubblico,[135][136] e affidate a un Praefectus urbi dell'ordine senatoriale. Ognuna di esse era comandata da un tribuno e da sei centurioni, e non è impossibile che comprendessero anche soldati a cavallo nei loro ranghi. Ecco come descrive Svetonio la loro missione:
«Esse devono assicurare la guardia dell’Urbe, così come i pretoriani costituiscono la guardia dell’imperatore.»
A queste furono aggiunte nel 6, altre 7 coorti milliarie di vigili, militarizzate anch'esse e formate per lo più da liberti,[137] a cui erano affidate le 14 regioni della città di Roma, con il compito di polizia "notturna" e di vigilare sui possibili incendi, a quel tempo molto frequenti.[133] Erano dislocati un po' ovunque nella città, equipaggiati con lampade per i servizi di ronda notturna, secchi, scope, sifoni per la lotta contro il fuoco. Erano comandate da un praefectus vigilum, affiancato da un tribuno e sette centurioni per singola coorte.[133]
L'imperatore Settimio Severo (193 - 211) costituì per la prima volta una "riserva strategica" in prossimità di Roma di quasi 30 000 armati:[138]
Anche la flotta fu riorganizzata (tra il 27 e il 23 a.C.) con marinai che rimanessero in servizio in modo permanente per almeno 26 anni,[139] grazie al valido collaboratore di Augusto, Marco Vipsanio Agrippa. Inizialmente fu dislocata in Gallia Narbonense a Forum Iulii,[129][140] in seguito fu divisa in varie flotte:
La Classis Misenensis, successivamente Classis Praetoria Misenensis Pia Vindex,[142] aveva il compito di controllare la parte occidentale del Mediterraneo.[143] Istituita da Augusto intorno al 27 a.C., era di stanza a Miseno, porto naturale nel golfo di Napoli.[144][145] I Romani sfruttarono ad arte la naturale conformazione del porto, che consiste in una doppia baia (una interna e una esterna), adibendo gli spazi più interni ai cantieri e al rimessaggio delle navi, mentre quelli più esterni come porto propriamente detto.[146] La flotta ebbe poi alcuni suoi distaccamenti nei principali porti del Mediterraneo, come ad esempio nel mar Egeo a Il Pireo (presso Atene),[147] e a Salona.[148]
Le navi della flotta rimanevano al sicuro nella base in autunno e inverno: la navigazione iniziava il 10 marzo[149] con la festa detta Isidis Navigium in onore della dea egizia Iside, patrona del mare, dei marinai e delle attività marinare.
La residenza del prefetto della flotta di Miseno sorgeva su quello che oggi è l'isolotto di Punta Pennata (allora collegato alla costa), dove sono presenti alcune evidenze archeologiche risalenti al periodo romano.[146] Nel 79, il prefetto della flotta misenate era Gaio Plinio Secondo, meglio conosciuto come Plinio il Vecchio. Plinio, secondo il nipote, morì durante l'eruzione del Vesuvio del 79, nel tentativo di salvare alcuni cittadini in difficoltà.[150]
Il velarium (sistema di teloni retrattili che coprivano il Colosseo) era azionato da un distaccamento della Classis Misenensis, che era alloggiato nei castra misenatium, accampamenti situati nei pressi del grande Anfiteatro Flavio.[154] L'imperatore Costantino I, nel 330, creò una nuova flotta praetoria a Costantinopoli.
Gli effettivi in armi erano circa 10 000 tra legionari e ausiliari, ed erano acquartierati nella cittadella di Miseno,[155] nei pressi della quale aveva sede la Schola Militum dove i legionari apprendevano e si esercitavano tanto nelle tattiche della guerra navale quanto in quelle tradizionali della guerra campale.
La Classis Ravennatis, successivamente rinominata Classis Praetoria Ravennatis Pia Vindex, fu istituita da Augusto intorno al 27 a.C.[144][145] Era di stanza a Ravenna ed era la seconda flotta dell'Impero per importanza. Aveva il compito di sorvegliare la parte orientale del Mediterraneo.[156]
Il porto di Classe era simile per conformazione a quello di Miseno, ma nel suo complesso non era del tutto naturale. Si racconta che potesse contenere fino a 250 imbarcazioni.[157] Le lagune, interne rispetto alla costa, erano unite al mare tramite un sistema di dune costiere sopraelevate tagliate da un canale, la "Fossa Augusta",[158] che, prolungato verso nord, congiungeva Ravenna alla laguna veneta e al sistema portuale di Aquileia. Lungo la fossa e attorno ai bacini si potevano vedere arsenali e depositi a perdita d'occhio; lo sviluppo delle banchine raggiungeva i 22 chilometri, estensione ragguardevole se si pensa che alcuni porti europei hanno raggiunto queste dimensioni solo nell'ultimo secolo.[159] A Ravenna, la basilica di Sant'Apollinare in Classe, quando fu costruita nella prima metà del VI secolo, era in riva al mare. Il nome "in Classe" indica appunto la vicinanza a quelli che erano i cantieri navali della flotta imperiale.[160]
La flotta ebbe poi alcuni suoi distaccamenti nei principali porti del Mediterraneo, come ad esempio nel mare Adriatico ad Aquileia[161] e a Salona nell'Illirico.[162] Come la flotta di Miseno, parte di quella di Ravenna fu trasferita nel 330 a Costantinopoli da Costantino. Anche per la flotta ravennate il numero degli effettivi si aggirava intorno ai 10 000 tra legionari e ausiliari.[155]
Numerose furono le città fortezza dislocate nell'intera penisola italiana, poste in località strategiche, pronte a difendere il territorio circostante della federazione romana contro qualsiasi genere di minaccia, interna o esterna. Si trattava delle colonie romane o di diritto latino,[32] basti pensare a una tipica struttura a forma di castrum (accampamento militare), quale la città di Aosta (Augusta Praetoria).[163]
In epoca alto-imperiale, la fortezza dove vennero alloggiate da Tiberio (20-23 ca.) le 9 coorti della guardia pretoriana e le 3 delle coorti urbane a Roma, erano i cosiddetti castra praetoria (un campo di 440 x 380 metri, pari a 16,72 ha, a ovest del quale fu approntata un'area per le esercitazioni);[164][165] mentre presso i castra Albana venne posizionata la Legio II Parthica al tempo di Settimio Severo, quale riserva strategica a difesa del territorio italico e dello stesso imperatore che risiedeva ancora a Roma.[138]
In epoca tardo-imperiale, tra le fortezze romane presenti in Italia degne di nota, fu l'Arx Romana di Mediolanum, che si trovava appena fuori da Porta Romana[166]. L'Arx Romana, in particolare, era situata sulla sommità di una piccola collina (arx, in latino, significa "rocca, "fortezza", ma anche "altura", "sommità", "luogo elevato"). Il sistema difensivo di Mediolanum era costituito anche da altre tre fortezze, il Castrum Vetus, il Castrum Portae Novae e il Castrum Portae Jovis[166].
In particolare, il Castrum Portae Jovis, che prendeva il nome dall'omonima porta, iniziò a rivestire, a partire dal 286, quando Mediolanum diventò capitale dell'Impero romano d'Occidente, anche la funzione di Castra Praetoria, ovvero di caserma dei pretoriani, reparto militare che svolgeva compiti di guardia del corpo dell'imperatore[167]. Nella stessa area dove sorgeva il Castrum Portae Jovis venne costruito, in epoca medievale, il Castello di Porta Giovia, che fu poi trasformato nel moderno Castello Sforzesco[168].
Quello che segue è un elenco delle principali civitas, municipium e vicus presenti nella penisola italiana:
A partire dalle conquiste dell'Italia greca del principio del III secolo a.C. (in particolare Taranto e Siracusa) e poi di quelle del mediterranee (inizio del II secolo a.C.) fino al tempo di Cesare, il saccheggio di paesi come il regno di Macedonia e la Grecia (dal 197 al 146 a.C.), Cartagine (146 a.C.), il regno di Pergamo lasciato a Roma in eredità (133 a.C.), il regno del Ponto dopo le campagne contro Mitridate (88-62 a.C.), la Siria seleucide conquistata da Pompeo (64-63 a.C.) e la Gallia prima meridionale e poi Comata da parte di Cesare (125-50 a.C.), portò nelle casse di Roma «così numerose spoglie provenienti da nazioni opulente che l'Urbe non fu capace di contenere il frutto delle sue vittorie».[171][172]
Questo flusso di oro e opere d'arte portò un enorme movimento di capitali in una città che fino a quel momento era stata legata prevalentemente all'attività agricola. Oltre poi ai bottini di guerra si aggiungevano anche le indennità di guerra imposte ai paesi conquistati e i nuovi tributi fatti pagare dai provinciali. Ciò produsse non solo un aumento dei salari e del costo della vita, con conseguenze soprattutto sul ceto sociale più povero, ma portarono anche alla svalutazione del denario. A tutto ciò si aggiunga un afflusso di masse di schiavi imponente, basti pensare che dopo la conquista di Cartagine vennero deportati 50 000 prigionieri di guerra e dopo le guerre contro Cimbri e Teutoni vennero immessi sul mercato cittadino ben 140 000 schiavi.[171]
Il fatto poi che questa politica di conquista dell'area mediterranea portò progressivamente a tenere lontani dal suolo italico i cittadini-soldati-agricoltori che prestavano servizio nell'esercito romano per lunghi anni, comportò profonde trasformazioni nell'agricoltura italica, riducendo le produzioni cerealicole (per l'afflusso di grano straniero e provinciale e quindi di scarso interesse commerciale) a vantaggio della coltura di piantagioni di ulivo e viti. I piccoli contadini furono così costretti a vendere i loro terreni, che ormai si andavano concentrando nelle mani di pochi e grandi latifondisti, con il conseguente esodo rurale e proletarizzazione della popolazione urbana e in particolare di Roma, oppure a cambiare le loro pratiche rurali, con conseguente aumento dei costi, andando a produrre soprattutto di olio e vino.[171]
Al tempo di Augusto l'Impero romano dominava su una popolazione di circa 55 milioni di persone (di cui 8-10 in Italia) su una superficie di circa 3,3 milioni di chilometri quadrati. Rispetto ai tempi moderni, la densità era piuttosto bassa: 17 abitanti per chilometro quadrato, i tassi di mortalità e natalità molto elevati e la vita media non superava i 20 anni. Solo un decimo della sua popolazione viveva nelle sue 3 000 città, più in particolare: 3 milioni circa abitavano nelle quattro città più grandi (Roma, Cartagine, Antiochia e Alessandria), di questi almeno un milione abitava nell'Urbe. Secondo calcoli approssimativi il prodotto interno lordo di quell'Impero era a quell'epoca attorno ai 20 miliardi di sesterzi e caratterizzato da vertiginose concentrazioni di ricchezze.
Il reddito annuale dell'imperatore era attorno ai 15 milioni di sesterzi, quello dei 600 senatori ammontava a circa 100 milioni (0,5 per cento del Pil), il 3 per cento dei percettori di redditi godeva del 25 per cento delle ricchezze prodotte. L'Italia, centro dell'Impero augusteo, godeva di una posizione privilegiata: grazie alle nuove conquiste di Augusto poteva disporre di nuovi grandi mercati di approvvigionamento (grano, in primo luogo, proveniente dalla Sicilia, dall'Africa, dall'Egitto) e di nuovi mercati di sbocco per le proprie esportazioni di vino e olio; le terre confiscate alle popolazioni sottomesse erano immense e dalle province arrivavano tributi in moneta e in natura (bottini di guerra, milioni di schiavi, tonnellate d'oro).[173]
L'economia italica era florida: agricoltura, artigianato e industria ebbero una notevole crescita, che permise l'esportazione dei beni verso le province, basti qui ricordare il celebre vino Falerno e le lucerne in terracotta Fortis o la terra sigillata aretina, tutti prodotti che mantennero una sorta di monopolio mondiale fino al II secolo.[174]
Per quanto riguarda i singoli territori, l'economia dell'Italia nord occidentale si basava principalmente su un'agricoltura caratterizzata da abbondanti raccolti e su un'intensa attività estrattiva che era localizzata soprattutto in Valle d'Aosta e nei dintorni di Ivrea e Vercelli[175].
Con un importante provvedimento, l'imperatore Domiziano (81 - 96) si dimostrò attento alla situazione produttiva dell'Impero e in particolare dell'Italia. Emanò un decreto che vietava l'aumento della coltivazione della vite in Italia e imponeva la distruzione di metà delle coltivazione nelle province. La decisione, pare fu presa per convertire terreni alla coltivazione di cereali, in modo tale da evitare rischi di carestia. In concreto si trattò di un provvedimento protezionista che favorì i produttori italici di vino, quando l'economia Italica iniziava a declinare di fronte alla concorrenza delle province.
Peso teorico dei Denari: da Cesare alla riforma di Aureliano (274) | |||||||||
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Denario | Cesare | Augusto (post 2 a.C.) |
Nerone (post 64) |
Traiano | Marco Aurelio (post 170) |
Commodo | Settimio Severo (post 197[176]) | Caracalla (post 215) |
Aureliano (post 274) |
Peso teorico (della lega): in libbre (=327,168 grammi) | 1/84
|
1/84
|
1/96
|
1/99
|
1/100
|
1/111
|
1/111
|
1/105
|
1/126
|
Peso teorico (della lega): in grammi | 3,895 grammi
|
3,895 grammi
|
3,408 grammi
|
3,305 grammi[177]
|
3,253 grammi
|
2,947 grammi[178]
|
2,947 grammi
|
3,116 grammi[179]
|
2,600 grammi[180]
|
% del titolo di solo argento: | 98%
|
97%
|
93,5%[181]
|
89,0%[181]
|
79,0%[182]
|
73,5%[181]
|
58%[183]
|
46%[179]
|
2,5%[180]
|
Peso teorico (argento): in grammi | 3,817 grammi
|
3,778 grammi
|
3,186 grammi
|
2,941 grammi
|
2,570 grammi[182]
|
2,166 grammi
|
1,710 grammi
|
1,433 grammi
|
0,080/0,019 grammi[184]
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Traiano (98 - 117), per ovviare al declino dell'agricoltura italica, impose ai senatori di investire in Italia almeno un terzo dei loro capitali. Pose dei limiti all'emigrazioni dalla penisola, tentando di incentivare la presenza del ceto imprenditore e della manodopera in un'Italia che stava perdendo la sua centralità e che stava per avviarsi a una fase di declino. Traiano fece bruciare i registri delle tasse arretrate (raffigurato in quest'atto nei Plutei della Curia) per alleggerire la pressione fiscale sulle province e abolì alcune tassazioni che gravavano sui provinciali e gli italici; poté così creare una sorta di cassa risparmio popolare che concedeva prestiti ai piccoli contadini e imprenditori romani che in tal modo beneficiarono di larghe concessioni; vennero poi favorite le prime cooperative e associazioni dei mestieri.
Ancora a Traiano si deve l'Institutio Alimentaria, provvedimento preso nel 103 in favore dei bambini bisognosi dell'Italia romana.[185] L'imperatore, che passò alla storia come optimus princeps, prelevò dal suo patrimonio personale le somme necessarie a garantire un avvenire sereno a centinaia di bambini bisognosi, legittimi e illegittimi, soprattutto nelle campagne. Tracce storiche dell'avvenimento sono rimaste sull'Arco di Traiano di Benevento, dove è raffigurata la distribuzione di viveri ai bambini poveri per via dell'institutio; gli stessi episodi sono rappresentati nel Foro Romano.
A lungo la critica vide il quadro di un'Italia romana in declino a partire dalla fine del II secolo, toccata da un grave crisi economica e dallo spopolamento e, infine, incapace di opporre resistenza alla concorrenza delle province. Tuttavia, mentre è vero che alcune province seppero assicurarsi alcuni ambiti del mercato, perché percepirono per prime alcune esigenze, è difficile estrapolare un quadro generale e valido per tutto l'Impero. Un esempio di questi casi è quello delle ceramiche sigillate, la cui produzione si spostò da Arezzo alle Gallie; lo spostamento delle produzioni di ceramiche dall'Italia in Gallia corrispondeva anche alla presenza della domanda dei legionari accampati sul confine del Reno; si trattava di un esercito di oltre centomila uomini, considerando gli ausiliari, cui vanno aggiunti donne, schiavi e altre persone al seguito. In Italia erano rimaste invece solo nove coorti pretorie, tre coorti urbane e sette di vigili non militarizzati. Altri studiosi, come Moses Finley, minimizzano l'importanza globale di queste produzioni nell'economia antica, prevalentemente agraria.
Una parte dei ricercatori considera infine lo spostamento dei siti di produzione come rivelatori di spostamenti economici più importanti ma meno visibili di quelli trattati dalle fonti. Questa prospettiva si basa sull'idea che alcuni cantieri di produzione, un tempo floridi, si trovarono a subire una fortissima concorrenza, nello stesso periodo in cui l'intera economia italica si trovava ad affrontare gli stessi problemi. È il caso della villa Settefinestre verso Cosa che vede le sue produzioni declinare, fino all'abbandono verso il 160 - 170. È tuttavia rischioso generalizzare la situazione storica di una sola regione, per quanto brillantemente ricostruita, e considerarla valida per tutta l'Italia. Altre aree, mostravano infatti maggior dinamismo economico, come la zona di Aquileia e in generale l'Italia settentrionale.
Che le importazioni dalle province superassero di gran lunga le esportazioni dall'Italia nella loro direzione non comporta necessariamente un declino dell'Italia, ma piuttosto le dimensioni sproporzionate del mercato romano-italico, foraggiato dalle imposte raccolte in provincia e redistribuite come salari e donativi ai funzionari, o le spese non lievi della corte imperiale e dei più ricchi senatori, mentre la situazione tecnologica rendeva i trasporti marittimi a lunga distanza più economici dei trasporti terrestri a media distanza. L'Italia da sola, inoltre, non poteva produrre abbastanza da nutrire Roma con il suo milione di abitanti, tanto più che la coltivazione del grano era poco remunerativa rispetto all'olivo e alla vite; le importazioni massicce, soprattutto alimentari, non bilanciate dalle esportazioni rendono conto di un declino.
Antonino Pio fece dono al popolo e all'esercito di una somma a noi sconosciuta, oltre a donare alimenti ai fanciulli più bisognosi, per onorare la moglie Faustina maggiore.[186] E durante un successivo congiarium (nel 145), furono donati a ciascun abitante di Roma 100 denari (pari a 400 sesterzi), per celebrare il matrimonio tra la figlia Annia Faustina e il futuro erede al principato, Marco Aurelio.[187] Si racconta che alla morte della moglie Faustina, Antonino la divinizzò e le intitolò un nuovo alimenta, il Puellae Faustinae, e un tempio nel Foro Romano, diventato dopo la morte dello stesso nel 161, il tempio di Antonino e Faustina.
L'imperatore Marco Aurelio donò un congiarium al popolo, quando diede al figlio Commodo la toga virile nel 175.[188] Due anni più tardi nel 177, quando associò al trono il figlio, attribuendogli la tribunicia potestas, organizzò un nuovo congiarium con spettacoli gladiatori.[189] Il figlio Commodo distribuì un nuovo congiarium al popolo di ben 725 denarii durante il suo regno (180-192).[190]
Marco, appena salito al trono nel 161 fu costretto a ridurre il titolo d'argento del denario dall'83,5% al 79% (percentuale di purezza). Pochi anni più tardi, nel 168, rivalutò il denario, incrementando il suo titolo dal 79% all'82% — passando da 2.57 grammi a 2.67 grammi. Ma due anni più tardi fu costretto di nuovo a tornare al precedente titolo a causa della guerra germanica e della conseguente crisi militare lungo le frontiere settentrionali.[182]
L'economia dell'Impero romano nei primi due secoli si era basata sulla conquista militare di nuovi territori e sullo sfruttamento schiavistico delle campagne: in mancanza di nuove conquiste e dei bottini di guerra le spese dello Stato, sempre più impellenti per poter far fronte alle pressioni esterne, furono coperte con un progressivo aumento delle tassazioni, proprio quando la diminuzione del numero di schiavi minava le possibilità economiche dei cittadini. Gradualmente la ricchezza, l'importanza politica, sociale, istituzionale e culturale si era livellata tra il centro e le province dell'Impero romano, sebbene con disparità ancora evidenti (in genere le province orientali erano economicamente più sviluppate di quelle occidentali). Per Roma e l'Italia questo ebbe conseguenze negative, poiché ivi la forza lavoro era costituita prevalentemente dagli schiavi, che venivano catturati durante le guerre. Sembra che se la situazione di pace dell'epoca degli Antonini avesse prodotto, per quanto riguarda la Città eterna e molte regioni italiane, una crescita demografica di considerevoli proporzioni, nel contempo vi aveva causato un calo produttivo acuito da una sempre più agguerrita concorrenza delle province. Il reperimento di manodopera servile a basso costo, formata soprattutto da schiavi, non aveva fino ad allora rese necessarie particolari evoluzioni tecniche.
Le continue scorrerie da parte dei barbari nei vent'anni successivi alla fine della dinastia dei Severi avevano messo in ginocchio l'economia e il commercio dell'Impero romano. Numerose fattorie e raccolti erano stati distrutti, se non dai barbari, da bande di briganti e dalle armate romane alla ricerca di sostentamento, durante le campagne militari combattute sia contro i nemici esterni, sia contro quelli interni (usurpatori alla porpora imperiale). La scarsità di cibo generava, inoltre, una domanda superiore all'offerta di derrate alimentari, con evidenti conseguenze inflazionistiche sui beni di prima necessità.[191] A tutto ciò si aggiungeva un costante reclutamento forzato di militari, a danno della manovalanza impiegata nelle campagne agricole, con conseguente abbandono di numerose fattorie e vaste aree di campi da coltivare. Questa impellente richiesta di soldati, a sua volta, aveva generato una implicita corsa al rialzo del prezzo per ottenere la porpora imperiale. Ogni nuovo imperatore o usurpatore era costretto, pertanto, a offrire al proprio esercito crescenti donativi e paghe sempre più remunerative, con grave danno per l'aerarium imperiale,[192] spesso costretto a coprire queste spese straordinarie con la confisca di enormi patrimoni di cittadini privati, vittime in questi anni di proscrizioni "di parte".[193]
La crisi era aggravata, inoltre, dall'iperinflazione causata da anni di svalutazione della moneta.[194] Questa si era resa necessaria già sotto gli imperatori della dinastia dei Severi, che per far fronte alle necessità militari avevano ampliato l'esercito di un quarto e raddoppiata la paga base.[195] Le spese militari costituivano poi il 75% circa del bilancio totale statale, in quanto poca era la spesa "sociale", mentre tutto il resto era utilizzato in progetti di prestigiose costruzioni a Roma e nelle province; a ciò si aggiungeva un sussidio in grano per coloro che risultavano disoccupati, oltre ad aiuti al proletariato di Roma (congiaria) e sussidi alle famiglie italiche (simile ai moderni assegni familiari) per incoraggiarle a generare più figli.[196]
E se sotto la Repubblica le monete erano coniate prevalentemente Roma e la zecca si trovava, inizialmente, nei pressi del tempio di Giunone Moneta, sull'Arx,[197] salvo alcune zecche mobili al seguito dell'esercito, che iniziarono a coniare monete, ad esempio durante le guerre di Silla, Lucullo, Pompeo in Oriente o durante le guerre civili, sia quelle di Cesare contro Pompeo, sia in quelle successive.[198] Fu soprattutto crisi del III secolo a moltiplicare le zecche imperiali,[199] per sopperire alla crescente militarizzazione imperiale e che provocò un primo decentramento e moltiplicarono le zecche vicine alle zone ad alta concentrazione di militari, zone in cui la richiesta di monete era elevata. Con la riforma monetaria di Aureliano del 274, quest'ultimo cercò di frenare la svalutazione della moneta agendo principalmente su due leve: sul valore dei nominali e sull'organizzazione delle zecche, che si erano affiancate a quella principale di Roma.[199] Si trattava di una serie ridotta di zecche imperiali, create durante il periodo della crisi del III secolo e collocate soprattutto in posizioni strategiche.[200]
Fu così che venne favorito il potenziamento delle zecche provinciali imperiali, in modo che potessero operare in modo continuativo, non saltuario come accadeva prima, dall'altra parte ridusse i volumi della zecca di Roma in Italia, che impiegava un numero di addetti ormai imponente e difficile da gestire sul piano sociale, chiudendone ben 7 officine su 12, tra quelle preposte alla coniazione di moneta di mistura.[201] La riforma monetaria di Diocleziano iniziata dal 294 vide una seconda ondata di creazione di zecche, che erano distribuite nelle diverse province, con l'eccezione della Hispania: Londra, Cartagine, Aquileia, Tessalonica, Nicomedia e Alessandria. Infine le successive capitali imperiali della tetrarchia favorirono l'apertura di qualche zecca supplementare. Le invasioni del V secolo posero fine all'attività delle zecche occidentali e della zona danubiana.
La rete stradale romana era funzionale allo sviluppo territoriale dell'Impero; le vie di comunicazione erano pensate soprattutto per scopi militari e per poter muovere rapidamente le legioni verso le provincie più lontane. A partire dal IV secolo a.C., quando Roma iniziò ad espandersi, di pari passo alla conquista della penisola venne avviata la costruzione di nuove strade, come supporto alla progressiva annessione di nuovi territori, e solo dopo aver consolidato le nuove conquiste esse venivano utilizzate anche con funzioni amministrative e commerciali.[202]
Plinio il Vecchio racconta che da Augusta Praetoria (Aosta) a Rhegium (Reggio Calabria), passando da Roma e Capua, si potevano incontrare strade per 1.020 miglia.[203]
La rete stradale romana in Italia risale in larga parte all'età repubblicana. Nell'area romana la costruzione di vere e proprie strade ebbe inizio assai presto, facilitata dalle caratteristiche fisiche del territorio laziale, che con le grandi valli che convergevano verso la città (Tevere, Aniene e Sacco-Liri) e le zone collinari e pianeggianti che la circondavano non presentavano grossi ostacoli alle comunicazioni terrestri. Queste strade seguivano i percorsi di piste e di sentieri preesistenti e collegavano Roma con le città vicine.[204]
La decisione di costruire le grandi vie di comunicazione, le "viae publicae", conosciute come "strade consolari", era di competenza del governo centrale e in particolare in età repubblicana dei magistrati "cum imperio" (consoli, censori e pretori, i proconsoli nelle provincie), dopo il 20 a.C. dell'imperatore stesso.[202][205] Nel corso dei secoli il loro tracciato ha subito diverse modifiche, con variazioni di percorso e prolungamenti.[206]
Molte di queste strade prendevano il nome dai magistrati che ne ordinarono la costruzione. In altri casi il nome deriva dalla località cui termina la strada stessa; ad esempio la via Ardeatina, che porta da Roma ad Ardea. In altri casi ancora, dall'utilizzo che se ne facevaː la via Salaria ad esempio è così chiamata perché vi si trasportava il sale.
Benché il tracciato delle principali strade sia noto, in molti casi esistono tra gli studiosi disparità di opinioni per la mancanza di evidenze archeologiche dovute all'interramento nel tempo della sede stradale o al contrario all'asportazione dei tratti sopraelevati o ancora perché le strutture sono state distrutte dall'espansione urbanistica delle città.[207] Talvolta non esistono notizie neppure riguardo alla denominazione originaria delle vie, in questi casi gli studiosi moderni le identificano con i nomi latini delle città collegate. Molte strade moderne ancora seguono il tracciato di quelle romane o, pur con un percorso leggermente diverso, ne riprendono la denominazione.
Lungo le strade, oltre alle legioni in marcia di trasferimento si potevano incontrare pubblici funzionari, corrieri a cavallo del cursus publicus (il servizio postale che assicurava le comunicazioni del potere centrale con gli organi amministrativi periferici), corrieri privati, i cosiddetti tabellarii, e numerosi privati cittadini che a piedi, a cavallo o con carri si spostavano per le loro esigenze commerciali o personali.[202][204]
A servizio dei viaggiatori esistevano dei punti di sosta. Le mansiones, situate lungo le vie principali a circa una giornata di viaggio, erano riservate ai funzionari pubblici, mentre per i privati c'erano tabernae e cauponae; lungo il percorso, a intervalli più o meno regolari, si trovavano inoltre le mutationes, stazioni per il cambio degli animali da trasporto e la riparazione dei carri.[202] Le legioni erano invece completamente autonome, perché portavano con sé tutti gli approvvigionamenti e approntavano ogni giorno il proprio accampamento a lato della strada.
Rispetto alle province fu soprattutto l'Italia ad essere privilegiata da Augusto, che vi costruì una fitta rete stradale e abbellì le città dotandole di numerose strutture pubbliche (fori, templi, anfiteatri, teatri, terme..)[219] e di uffici di raccolta tributari.[72] Esempio degno di nota è Mediolanum, per cui Augusto predispose un vero e proprio piano regolatore dotato di una certa complessità, compilato tra la fine del I secolo a.C e l'inizio del I secolo d.C., in base al quale fu prevista l'evoluzione dell'antico abitato celtico in città romana, la cui struttura urbanistica fu conservata per secoli.[220]
In Italia sono diversi i ponti che hanno conservato archi, piloni o fondamenta di epoca romana, oppure rifatte sullo stesso luogo con materiali di reimpiego dal precedente ponte romano, o per le quali si conosce dalle iscrizioni l'esistenza di un ponte romano ora scomparso; si tratta di ponti veri e propri, di viadotti e di frangicorrente (o rostri).
I Romani furono i primi nella storia dell'architettura a realizzare cupole e creare enormi e ben definiti spazi interni. Le cupole vennero introdotte nelle maggiori costruzioni romane: terme, palazzi, mausolei, chiese e solo più tardi nei teatri. Anche le semi-cupole vennero adottate nel campo dell'architettura (per esempio per coronare un'abside nell'architettura cristiana). Le cupole furono costruite a partire dal I secolo a.C. a Roma e in Italia e successivamente nelle provincie romane del Mar Mediterraneo.
Le cisterne sono state usate prevalentemente per l'uso di acquedotti, terme o basilari per la Marina militare romana.